UN CENTENARIO DA RICORDARE
NOVE SECOLI DALLA MORTE DI SAN GIOVANNI GUALBERTO
Notiziario Forestale e Montano
n.216-217 anno 1972
Il prossimo 12 luglio 1973, ricorre il IX Centenario della morte di San Giovanni Gualberto, fondatore di Vallombrosa e Patrono dei Forestali d’Italia.
L’Abate Generale dei Monaci Benedettini Vallombrosani, Mons. Giuseppe Zambernardi, ha da tempo costituito un Comitato coordinatore di tutte le iniziative per degnamente onorare quella ricorrenza, in occasione della quale verrà altresì pubblicato il secondo volume di « L’Abbazia di Vallombrosa nel pensiero contemporaneo », che farà seguito al primo volume edito nel 1953, in ricorrenza del IX Centenario della consacrazione della chiesa abbaziale di Vallombrosa, dedicata alla SS. Maria Assunta, successivamente elevata a Basilica minore il 28 novembre 1950 dal sommo Pontefice Pio XII.
La tradizione e la devozione stimolano nei Forestali d’Italia il desiderio di partecipare, spiritualmente e praticamente, alla solennizzazione di tale evento per onorare il loro S. Patrono. Sarà ovviamente compito della Direzione Generale, rappresentante del Ministero, prendere opportuni accordi con la Congregazione Vallombrosana per inserire tale auspicata partecipazione nel programma delle manifestazioni, in un quadro organico e razionale.
I Forestali della passata generazione, tutti coloro cioè che da oltre 20 anni fanno — o facevano — parte dell’Amministrazione non possono non ricordare come si giunse alla proclamazione di S. Giovanni Gualberto, di questo grande santo Patriarca, quale celeste principale Patrono dei Forestali d’Italia « con tutti gli onori e privilegi liturgici che giuridicamente competono ai Patroni principali delle aggregazioni », come testualmente è detto nel Decreto che il grande Papa Pio XII emanò il 12 gennaio 1951. Ma, da allora ad oggi è trascorso oltre un ventennio e il costante rinnovamento naturale dei quadri e dei ruoli ha determinato via via, il collocamento a riposo dei più anziani che hanno recato seco, tra i tanti ricordi di una vita spesa in favore del bosco e della montagna, anche quello del loro S. Patrono. Sembra quindi opportuno rievocare, per sommi capi, fatti e circostanze, probabilmente non conosciuti da molti odierni Forestali, e che rendono doverosa e devota la partecipazione dell’Amministrazione e dei suoi appartenenti alle prossime cerimonie in Vallombrosa.
PREMESSA
Dai banchi di scuola, abbiamo cominciato a conoscere, attraverso le sue opere, uno dei più grandi filosofi e statisti del secolo passato, ma sopra tutto uno dei più grandi italiani del Risorgimento, che aveva la Patria in cima ad ogni suo pensiero: intendo riferirmi a Vincenzo Gioberti (1801-1852). Come ancora è esaltante il suo grido: « Giunta è l’ora in cui l’Italia non vuole più essere lo zimbello e lo scherno di Europa, non vuole più cedere in potenza e in fiore a nessun degli Stati che la circondano... ». Tale l’Italia che il Gioberti vagheggiava nel suo cuore e nel suo pensiero, di cui non disperò neppure nell’ora che il suo bel sogno del Risorgimento pareva caduto per sempre dopo la sconfitta di Novara. A quei tempi, i suoi libri sul « Primato morale e civile degli italiani » destarono il maggiore entusiasmo e si collocarono al centro di quella letteratura che intendeva suscitare nella coscienza degli italiani le forze spirituali capaci di trasformarsi in atto di fede nei destini della futura nazione, massimo fattore ideale all’azione politica del Risorgimento. Il «Primato» contiene pagine incantevoli, in cui si celebrano le glorie passate con la speranza di una grandezza futura, esaltando l’animo della gioventù.
Ma il Gioberti fu anche un profondo credente, un cattolico. Infatti, nei suoi «Prolegomeni del Primato» egli avverte: «Prego il lettore di ricordarsi che, a parer mio, la religione non è solo una faccenda celeste, ma anche terrena, e che il Cristianesimo non e solamente un culto, ma anche una civiltà; dal che segue che religione e Cristianesimo sono due cose che abbracciano tutto l’uomo, tutta la società umana, senza lasciar ne un briciolo che loro non appartenga». Altri concetti, al riguardo, egli cosi li esprime: «Che cosa è infatti la civiltà se non la scienza applicata all’azione?». «La civiltà è scienza e arte, speculazione e pratica, pensiero e azione» «La religione e la civiltà sono unite indissolubilmente». «La religione crea la moralità e la civiltà del genere umano». Sono, queste, affermazioni che solo un credente può fare.
Il grande letterato, filosofo e patriota dalmata Niccolò Tommaseo (1802-1876), i cui scritti più noti sono il suo Dizionario dei sinonimi e i volumi intitolati «Dell’Italia», proprio in quest’ultima opera si sofferma diffusamente a parlare e a discutere i problemi della sua patria italiana, il cui rinnovamento, egli aggiunge, resta in fondo un problema di morale e a risolverlo bastano le energie dello spirito e, sopra tutto, una fiamma d’amore. Prosegue dicendo: «Se l’uomo deve procurare ogni esercizio delle proprie facoltà, che non le distrugga e non le infermi, deve per necessità logica credere in Dio. Questo credo gli accresce l’amore all’infinito e questo amore gli dona forza e dignità all’intelletto... L’uomo che crede sa meglio sopportare il dolore e il disagio, con più pacato animo affrontare il pericolo e, in tal modo, vincerlo e menomarlo. Tutti i popoli valorosi credettero ed io veggo nella credenza un incitamento per la perfettibilità indefinita dell’uomo: rigettarla sarebbe delitto ».
Perché ho inteso fare questa premessa ed ho ritenuto opportuno citare alcuni brani di questi due grandi italiani, pur tralasciando gli scritti di tanti altri uomini illustri, tra cui il Manzoni, di cui è ben noto il suo credo cattolico? Perché mi è sembrato più agevole dimostrare — se ve ne fosse stato bisogno — che l’uomo è spirito originato da spirito, che la materia è limite tra l’uomo e Dio: più il limite si annulla, più stretta si fa l’umana società, più l’uomo si comunica a Dio: più l’uomo è civile e più è religioso.
Ecco il motivo per cui tutti noi credenti ci sentiamo spinti a scegliere una protezione soprannaturale, specialmente coloro tra noi a cui sono demandati dalla società particolari incarichi, nello stesso tempo di grande fiducia, ma anche di grave rischio per la loro incolumità fisica. Questa è la ragione per cui gli uomini addetti alle armi, alla tutela della legge e dell’ordine civico, agli interventi contro i pericoli delle calamità naturali e contro quelli creati da barbari e incivili esseri umani, come pure quelli appartenenti a professioni e a mestieri artigiani, hanno sempre invocato la protezione di Dio o direttamente o attraverso celesti patrocinatori. Ecco perché anche i Forestali italiani hanno perorato ed ottenuto il loro celeste Patrono presso Dio scelto unitamente e con fermato dal sommo Pontefice nel Fondatore di Vallombrosa, cioè in San Giovanni Gualberto.
E’ umanamente concepibile che taluni possano chiedere i motivi di questa scelta, mentre altri intendano essere edotti, conoscere qualche cosa della vita terrena di questo grande Taumaturgo, sulle sue origini, sul suo apostolato, sull’Ordine monastico da Lui fondato. A questi legittimi interrogativi cercherò di rispondere, a cominciare dagli ultimi,tenendo presente che, per esigenze di spazio tipografico, dovrò essere, per quanto possibile, coinciso.
CENNI STORICI SULLA VITA DI S. GIOVANNI GUALBERTO
Giovanni Gualberto non era un diseredato allorché decise di indossare l’abito monacale. Nato a Firenze nel 995, proveniva da nobile e ricca famiglia fiorentina, quella dei Visdomini, signori del castello di Petrolio in Vai di Pesa. Suo padre Gualberto (per evitare omonimia chiamò il figlio Giovanni Gualberto), discendeva da Buonaccorso Visdomini, che era stato fatto nobile da Carlo Magno; sua madre Camilla era una Aldobrandini.
Giovanni Gualberto venne educato a livello del suo rango, ma, fin dalla tenera età, gli vennero insegnate la modestia e la generosità. La famiglia Visdomini era restia a trattare con alterigia e in maniera disumana i dipendenti che vivevano nel suo feudo, come era consuetudine a tempi: Giovan Gualberto non disdegnava di dividere le ore dei suoi divertimenti anche con i figli dei cosi detti servi della gleba. Come suo padre era uomo d’arme «vir militaris », anche egli fu indirizzato alla carriera delle armi e divenne tanto esperto nelle arti cavalleresche da competere con i migliori cavalieri fiorentini. Era di bello e nobile aspetto; i lineamenti del suo volto rispecchiavano il suo animo generoso
e caritatevole. Davanti a lui era un avvenire brillante e pieno di soddisfazioni.
Un lontano congiunto, un giorno, uccise il suo fratello maggiore, Ugo Visdomini, avendo in animo di uccidere anche Giovan Gualberto per impossessarsi dei loro ricchi feudi. Secondo il costume dell’epoca, occorreva lavare l’onta subita, fare giustizia all’ingiuria patita; e il vecchio genitore affidò l’incarico a Giovan Gualberto di vendicare il fratello e l’onore della casata. Il 26 marzo del 1028, Giovanni incontrò l’uccisore di Ugo presso il sagrato della chiesa di 5. Miniato al Monte in Firenze: cavalcavano ambedue, seguiti dai loro armati. Era di venerdì santo, giorno in cui la Chiesa commemora il sacrificio del Calvario.
Ridotto l’avversario alla sua mercè, Giovanni stava per trafiggerlo con la sua spada. Avrebbe dato, in tal modo, prova della sua valentia e il nemico cercasse in tutti i modi, anche i più subdoli, di sopprimere anche lui.
Che cosa era la vita di un uomo a quei torbidi tempi, in cui la giustizia dell’epoca, Giovanni era nel pieno diritto di vendicare il fratel suo:maggior rispetto e ammirazione si sarebbero riversati sulla sua persona e sulla famiglia se avesse condotto a termine l’impresa. Queste brevi considerazioni sull’episodio tendono a mettere in giusta luce l’evento miracoloso che si verificò in quel medesimo istante e che produsse tale rivolgimento spirituale in Giovanni Gualberto da trasformare completamente la sua vita.
Oltre all’orgoglio del suo casato, Egli nutriva profondi sentimenti cristiani: alla vista del suo crudele nemico caduto in ginocchio, pentito e implorante perdono, dovette pensare al Cristo e alle sue parole misericordiose rivolte dalla Croce: << Perdona questi che non sanno quel che fanno >> Incurante di come potessero giudicarlo i suoi congiunti, i suoi amici, la sua società, Giovanni, spinto da un impulso arcano, gettò la spada e, perdonando, abbracciò l’uccisore di suo fratello.
Se dovessimo proseguire cronologicamente a descrivere la vita di Giovanni Gualberto, dovremmo ricordare che Egli, subito dopo aver concesso la vita al suo avversario, sentendosi intimamente e completamente trasformato dall’atto compiuto, corse in San Miniato, nel tempio di Dio, per ringraziare la Divina Misericordia per la vittoria riportata su sè stesso. Si gettò ai piedi di quel Crocifisso, che, staccatosi in parte dal legno che lo sosteneva, gli mosse il capo in segno di approvazione. Questo videro Giovanni Gualberto e la folla dei fedeli che, in quel momento gremiva il tempio per la sacra funzione de Venerdì Santo. Per questo atto di suprema volontà, che tanto contrastava con i costumi di quei tempi, Giovanni Gualberto fu poi chiamato l’Eroe del Perdono e successivamente, come si accennerà, il Difensore della Fede e della Chiesa.
Di fronte a queste prove soprannaturali, nel cuore generoso del giovane Visdomini scaturirono sentimenti traboccanti di amore verso il Signore e immediatamente decise di consacrarsi a Lui e di mettere la vita al Suo servizio. Rinunziando agli agi e agli onori della sua casta, entrò nel monastero dei Benedettini, attiguo alla Chiesa, per indossare l’abito monacale, riuscendo a superare tutti gli ostacoli frapposti dalla sua potente famiglia, che vedeva in Lui l’unico erede. Questo avvenne nl 1028:Giovanni Gualberto aveva 33 anni.
Dopo un anno di dure prove, professò i voti e dopo altri 4 anni di esemplare vita monastica venne eletto Abate del monastero, carica clic Egli rifiutò per rimanere semplice monaco e servire Iddio in umiltà. L’eresia e la simonia, che in questi tempi si manifestavano anche tra alcuni ecclesiastici in Firenze come altrove, lo indussero ad elevare la sua voce contro lo stesso Vescovo della città. Atto, che dalla cattedra episcopale aveva esercitato il traffico sacrilego delle cose sante. In verità, in quei tempi di oscurantismo, la strapotenza degli imperatori tedeschi minava non soltanto la vita sociale della penisola, ma anche la gerarchia della Chiesa alla quale si anteponeva. infatti, essi usurparono il diritto di creare vescovi chi loro piacesse, consegnando ad essi non soltanto il pastorale, ma anche la spada.
Per rendere più efficace la sua azione contro questo malcostume, Giovanni Gualberto si recò una mattina di sabato, in cui la Piazza del Mercato Vecchio di Firenze rigurgitava di popolo, in mezzo a quella folla e, senza riserve o sottintesi, denunziò il Vescovo Atto di eresia e simonia. I clienti del Vescovo e i suoi armati, avvertiti di quanto stava accadendo, irruppero nella piazza, percossero e ferirono il Monaco, che a stento fu ad essi sottratto. Poiché non poteva più uscire dal monastero — pena la vita — e quindi non più esercitare il suo apostolato religioso e la sua azione moralizzatrice, una notte si accomiatò dai suoi confratelli e prese la via dei monti, sempre deciso a combattere chi tanto male arrecava alla Chiesa e alla Patria. Per questo motivo, Egli venne chiamato anche - come già accennato - il Cavaliere della Fede, l’invitto assertore della purezza dei costumi e la sua azione fino alla sua morte, produsse una benefica influenza in tutta Italia, tanto che la Chiesa volle inserire nel suo << Breviarium >> questo riconoscimento, che suona come un elogio: <<In tota Italia fidem pristinae integritati restituit>>.
Entrato nel monastero di 5. Miniato nel 1028, Giovanni Gualberto ne usci come un perseguitato in quella notte del 1035. Nell’inverno del 1036 giunge a Camaldoli e s’incontra con S. Romualdo, che vedeva in Giovanni colui che l’Onnipotente aveva prescelto per fondare un nuovo ordine di 5. Monaci, che molto avrebbero operato a vantaggio e ornamento della Chiesa di Cristo.
Continuando la sua peregrinazione, il santo Monaco attraversa tutta la parte orientale dei monti del Pratomagno e si avvicina di nuovo a Firenze, deciso a far sentire ancora la sua voce e a combattere per la Fede. Ai primi di marzo dello stesso anno 1036, giunge in un tardo pomeriggio burrascoso in una località ove egli ritiene conveniente di pernottare. Chiamavasi il luogo << Acquabella >>, forse per le copiose sorgenti di limpida acqua che, qua e là, scaturivano abbondantemente in quegli alpestri dintorni, in parte stagnando in quella conca e in parte affluendo al vicino torrente Vicano. Le ombre della notte incipiente e le nebbie avevano avvolto il paesaggio nell’oscurità. Non pratico della zona e non conoscendovi alcun rifugio, Giovanni Gualberto cerca di ripararsi alla meglio sotto un grosso faggio che, come tutte le piante della contrada in quella stagione, è ancora spoglio del manto verde. Pensa Egli che l’imponente tronco dell’albero può in parte preservarlo dalla pioggia, ma è tuttavia rassegnato al peggio.
All’alba, invece, si accorge che il suo mantello è completamente asciutto: istintivamente, solleva lo sguardo e osserva, con somma meraviglia, che durante la notte il faggio si era completamente rivestito di verdi fronde novelle e che i suoi rami si erano piegati, formando un padiglione, che lo aveva immunizzato dalla pioggia caduta incessantemente durante la notte. Da questo fatto prodigioso, interpretò la volontà del Signore che Egli si dovesse fermare colà, tra i monti e le selve, ed ivi rimase. Poi, la contrada « Acquabella » assume la denominazione di Vallimbrosa (valle imbrifera), che si trasforma successivamente in « Vallombrosa » e l’Ordine Monastico, sorto per opera di Giovanni in quella località, viene chiamato << Vallombrosano >>.
Il miracolo del faggio, che determinò la permanenza di Giovan Gualberto in quella zona, divenuta poi storica ed importante sotto il duplice aspetto monastico e forestale, accese la fantasia di un celebre pittore del ‘400. Ambrogio da Fossano, detto il Borgognone, il quale ritrasse in un suo dipinto la scena del risveglio del Santo Monaco al mattino dopo la tempesta. Il quadro trovasi attualmente nella Sagrestia della Basilica di Santa Prassede in Roma, officiata dai Monaci Vallombrosani dell’attiguo Monastero.
Nel 1038, Giovan Gualberto accoglie a Vallombrosa alcuni suoi confratelli, fuggiti da S. Miniato perché perseguitati dal vescovo simoniaco Atto, e due eremiti. Con essi, costruisce delle celle di legno e un oratorio, pure in legno con un altare di pietra, dedicato all’Assunta e ad altri Santi, che fece consacrare da Rodofo vescovo cattolico di Pardebona (attuale Paderborns in Vestfalia, Prussia occ.), che trovavasi in quell’anno in Italia, di passaggio per Firenze, allo scopo di evitare il vescovo simoniaco Atto. La sua fama di santo monaco si estende, a poco a poco, in tutta la Toscana e molti sono coloro che lo raggiungono; e non soltanto monaci ed eremiti, ma ecclesiastici, uomini di mondo, potentati, appartenenti alle più nobili famiglie etrusche, che anelavano ritrovare la via verso Dio.
Il territorio su cui Giovanni Gualberto si era istallato, insieme con la primigenia comunità monacale, apparteneva alla nobildonna Itta dei conti Guidi, la quale era a conoscenza della vita grama e di penitenza che quei monaci conducevano al punto di averli a volte provvisti di cibarie e di libri. Ammirata della fede verso la Chiesa di Roma, che quei monaci dimostravano, e della loro opera benefica, non contenta di aver consentito che quella comunità vivesse nelle sue proprietà, la contessa Itta volle rendere permanenti i suoi benefici e con un formale atto di donazione, in data 3 luglio 1039, di cui è ben noto il testo, cedette ad essi non soltanto il terreno su cui erano state costruite le celle e l’oratorio, ma vaste terre incolte e coltivate. Subito dopo la donazione di Itta, Giovan Gualberto, già effettivo superiore di Vallombrosa, dovette prendere il titolo di «Praepositus» o Priore, ed ebbe cura di costruire in pietra, alla distanza di una trentina di metri ove aveva eretto il primo oratorio in legno, una bella chiesa a croce latina, di stile romanico, e di edificare, a fianco di essa, il monastero. Terminati i lavori, che occuparono una diecina di anni, Giovanni invitò a Vallombrosa il Cardinale Uberto di Selva Candida, al quale il 9 luglio 1051 fece consacrare la nuova chiesa, dedicata come il primo oratorio, a Maria Assunta in cielo.
Nel frattempo, intorno al 1040, la comunità ha già la sua Regola, dettata da Giovan Gualberto sulla base di quella benedettina, ma resa ancor più austera e patriarcale dall’aggiunta delle « Consuetudines Monasticae ». La Congregazione Vallombrosana viene riconosciuta da Papa Vittore II nel 1055. Il Santo fondatore mette in pratica, lui per primo, il motto di San Benedetto: « Ora et labora », e i suoi monaci lo vedono quotidianamente orare, assistere i poveri, studiare, scrivere e lavorare manualmente fino al limite delle forze umane. Pur essendo venuto in tanta fama di erudito nelle discipline ecclesiastiche, nei canoni e nelle sacre scritture da dover assecondare tutti coloro che a Lui si recano per avere consiglio e attingere sapienza, non disdegna interrompere lo studio e la meditazione per impugnare gli arnesi da lavoro.
Enormi le difficoltà, gravi i pericoli, severi i digiuni che Giovanni Gualberto deve e vuole superare durante i 37 anni trascorsi quasi sempre tra i monti e i boschi. Enormi difficoltà, sia nella lotta per combattere i denigratori della Chiesa, gli eretici e i simoniaci, sia nell’affrontare i problemi che giornalmente gli si presentano per governare una comunità sempre più numerosa; gravi pericoli non soltanto per gli animali selvatici, aggressivi o velenosi, che in quei tempi infestavano la zona e per le aggressioni da parte di ladroni e malviventi, che non sopportano l’insediamento di una comunità religiosa presso i loro rifugi, ma sopra tutto per le macchinazioni palesi e occulte degli eretici e dei simoniaci, i quali vedevano le loro mire ambiziose e i loro commerci sacrileghi minati dall’apostolato energicamente intrapreso da Giovanni Gualberto, che viene da loro minacciato e calunniato come fanatico ed esaltato. Più volte si attenta alla vita del grande Santo e un giorno i sicari del vescovo eretico e simoniaco Pietro Mezzabarba irrompono a mano armata nel monastero di San Salvi presso Firenze, ove credono di trovano, sfogando poi il loro scorno sugli inermi monaci, massacrandone in gran parte e incendiando il monastero, fondato da Giovanni Gualberto nel 1048. A questo scempio, il popolo fiorentino si ribella, tumultua e, unitamente ad altri ecclesiastici della cattedrale e di molte altre chiese, si unisce ai monaci vallombrosani per riparare ai gravi danni inferti al monastero e alla chiesa.
Nei 45 anni di vita monacale, Giovanni dedica gran parte delle sue energie alla restaurazione della Fede cattolica, in umile e profonda ubbidienza ai Papi che si susseguono sulla Cattedra di Pietro, i quali sono impediti ad esercitare tutta la loro autorità spirituale per lo strapotere di imperatori e principi. Giovanni Gualberto si dimostra incurante d’ogni pericolo personale e risoluto; nel simbolo di una piccola Croce di legno, di forma greca (come si può ammirare nel quadro del Borgognone), che reca sempre con sé, eleva la sua voce mentre il suo volto, rotto dai digiuni e dalle penitenze, viene trasformato da un celestiale splendore.
Anche i Papi tenevano in grande considerazione l’apostolato di Giovanni Gualberto e le sue lotte per la fede e la Chiesa di Roma. Alessandro II e Stefano IX mandarono a Lui degli inviati speciali per ascoltarlo e avere consigli. Il Papa San Leone IX, dopo il Concilio deI 1050, tenutosi a Roma nel Palazzo Lateranense, nell’anno successivo si reca fino al monastero di Passignano in Vai di Pesa per conoscerlo e per abboccarsi con questo degno figlio. « Giovanni Gualberto rappresentava ormai la forza del bene, osserva lo storico tedesco Robert Davidsohn (1853-1937) nella sua magistrale storia di Firenze, e di questa forza del bene Papa Leone volle assicurarsi, e a questo soldato volle egli dare il conforto della sua approvazione e della sua benedizione ». Di Gregorio VII è il vero braccio destro per l’estinzione dell’eresia dominante e per il trionfo della Fede e della Chiesa. Il Davidsohn lo definisce un soldato ed in effetti, per l’energia che dimostra e per lo spirito combattivo, Giovanni può paragonarsi, sotto questo aspetto, all’Apostolo San Paolo, il quale, come è noto, propagandò il verbo del Cristo con ogni risolutezza, non curante dei gravi pericoli cui si esponeva.
Nel frattempo, Giovanni Gualberto viene giuridicamente riconosciuto, nel 1055, abate generale di tutti i monasteri vallombrosani. Infatti, l’Ordine Monacale da Lui fondato già si estende in tutta la Toscana, in Romagna e in Lombardia, sempre recando dovunque l’esempio della carità, dello studio, del lavoro, delle virtù e della fede nella Chiesa di Roma. Poi, si diffonde in molte altre regioni e in Francia. Nel suo massimo splendore, l’Ordine Vallombrosano annoverò oltre 200 tra abbazie, priorati, monasteri, oltre l’Archicenobio di Vallombrosa. Questo risveglio spirituale che, dal centro del tosco appennino, si diffonde, per opera di Giovanni, in tutto il nostro Paese, sembra quasi precorrere quello politico, che si effettua otto secoli dopo. L’unità spirituale crea nei popoli le condizioni necessarie per raggiungere altre mete.
Giovanni Gualberto mori santamente come visse il 12 luglio del 1073, nel monastero di Passignano, alla tarda età di 78 anni. Prima di passare a miglior vita, dettò una lettera diretta a tutti i suoi confratelli, affinché rimanesse come suo ricordo e fosse una guida spirituale per l’opera da svolgere nel futuro. In questa lettera-testamento, oltremodo bella per i nobili concetti espressi con grande semplicità, Egli ricorda ai suoi seguaci l’amore in Dio e la carità, perché << la carità copre la moltitudine dei peccati e niente valgono le altre virtù se questa non si possiede >>. Uno scrittore cosi commentò questa lettera: « Il capitano della eletta schiera, mentre le membra del suo corpo si avviano alla disgregazione, mostra tutta la sua energia, prudenza e santità, e sigilla cosi, con un pensiero ed un atto di carità spirituale, quella vita che aveva iniziato con un atto eroico di perdono ».
L’Ordine Vallombrosano annovera, finora, 11 Santi, oltre a quei santi monaci trucidati in Sicilia nel 1253 e in Sardegna, da parte dei Mori, nel 1300; 35 Beati, 28 Venerabili. Gli Abati Generali, che si sono susseguiti alla guida dell’Ordine, sono fino ad oggi 131, compreso 5. Giovanni Gualberto: tra essi, tre risultano non italiani e precisamente uno spagnolo, uno ungherese e uno austriaco. Sono da annoverare all’Ordine 4 Pontefici, 20 cardinali e 44 vescovi.
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A questo punto, immagino che una domanda sorgerà spontanea tra coloro che hanno seguito fin qui la lettura di queste note: le virtù taumaturgiche di Giovanni Gualberto si manifestarono, con prove tangibili, anche durante la sua vita terrena? Rispondo subito affermativamente. Infatti, il Papa Gregorio VII, che fu coetaneo di Giovanni Gualberto e che ne apprezzò l’apostolato, ne iniziò la canonizzazione: segno evidente che era a perfetta conoscenza delle sue virtù taumaturgiche. Poi. alla morte di Gregorio VII, nel 1085, la Chiesa e il Papato dovettero risolvere molti e gravi problemi, dovuti sopra tutto alle interferenze e alle lotte che ad essi erano rivolte dagli imperatori e da altri principi. Finalmente, schiaritosi l’orizzonte, i Papi poterono esercitare nuovamente il loro dominio spirituale: il 1° ottobre 1193, Giovanni Gualberto venne elevato agli onori dell’altare da Papa Celestino III.
Tutti i biografi di S. Giovanni Gualberto, tutte le memorie che ricordano le sue opere, citano con ampiezza di particolari e di testimonianze i miracoli compiuti, durante la vita terrena del grande Patriarca. Oltre al miracolo del Perdono e del Crocifisso di S. Miniato, che approva la grande rinunzia di Giovanni Gualberto, numerosissimi altri miracoli furono compiuti da Giovanni Gualberto in vita: dal pane moltiplicato nel forno, per distribuirlo ai poveri, ai cassoni di grano che non si esauriscono mai per accontentare i poveri pellegrini in un anno di carestia, alla pesca miracolosa, alla scacciata di satana da un moribondo, alle tempeste che si placano con la sua benedizione, alle guarigioni di gravi infermità, ecc. Di questa sua virtù, Egli non voleva esserne esaltato; con quella grande umiltà che lo distingueva, andava ripetendo che non lui, ma la grande misericordia di Dio bisognava ringraziare.
Anche per non dilungarmi troppo, accennerà soltanto ad uno dei suoi miracoli avvenuto alla presenza di una immensa moltitudine - di cui molti suoi nemici- e che ebbe in tutta Italia una grande risonanza e che fece ricredere molti eretici: quello relativo all’invocato Giudizio di Dio. Nell’alto medio evo era usanza ricorrere al Giudizio di Dio quando si dovesse giudicare una questione di estrema importanza, per la quale la giustizia umana, ed anche le autorità ecclesiastiche, o erano ritenute incompetenti ad emettere un giusto verdetto o gli uomini, che dovevano rendere giustizia, erano essi stessi parte in causa. << Il Giudizio di Dio -_scrive l’Abate Salvini - era un appello che si faceva direttamente alla Divinità, affinché intervenisse a giudicare una grave controversia, sospendendo le leggi naturali, per dimostrare l’innocenza di una persona o di una comunità. Cosi, ad es., l’imperatrice Santa Cunegonda vi si appellò camminando a piedi scalzi su ferri infuocati a prova della propria pudicizia, e Dio intervenne, non permettendo che il fuoco le nuocesse minimamente. La Chiesa ha oggi definitivamente condannato questa usanza, che a quei tempi non approvava, ma tollerava tuttavia. E l’intervento di Dio, favorevole all’innocenza, dimostra che questo giudizio eccezionale trovava la sua ragione di essere nell’eccezionalità dei tempi e delle condizioni >>.
Le condizioni di Firenze erano oramai diventate impossibili: l’eresia e la simonia, allora imperanti, avevano disgregato anche il clero. Una parte di questo, per i favori ottenuti, riconosceva l’autorità del vescovo Mezzabarba, simoniaco, nominato all’alta dignità vescovile da Goffredo, Duca di Lorena; un’altra parte, che non intendeva riconoscere suo pastore il Mezzabarba, era da questi vessata ed impossibilitata ad esercitare liberamente il sacerdozio. Il popolo fiorentino, vedendo che i più degni servi di Dio o erano costretti a fuggirsene o venivano presi perfino nelle chiese e imprigionati, un giorno del febbraio 1068 scese nelle piazze e cominciò a tumultuare. Alcuni sacerdoti e chierici, rimasti fedeli alla legge di Cristo e alla Chiesa e che avevano trovato asilo in città, nel timore che i tumulti portassero ad eccessi, poiché gruppi di popolani esasperati, unitamente alle loro mogli, andavano ripetendo che si dovesse lasciare Firenze per andare alla ricerca di un vero pastore, dopo di averla incendiata per non abbandonarla in mano agli eretici, suggerirono di recarsi in massa al Monastero di Settimo, ove si trovavano Giovanni Gualberto e alcuni suoi monaci, forse a causa della devastazione di San Salvi. Dopo varie consultazioni e dopo che i sacerdoti e chierici avevano rivolto preci al Signore per essere illuminati, mandarono alcuni confratelli a Settimo per sentire se Giovanni Gualberto e i suoi seguaci fossero disposti alla prova del fuoco. La risposta fu affermativa e si stabilirono immediatamente le modalità e si fissò il giorno: il mercoledì dopo la prima domenica di Quaresima.
Una fiumana di popolo, da tutti i rioni di Firenze si riversò quella mattina verso Settimo, poiché il nome del santo monaco era ben conosciuto e venerato. Giovanni Gualberto, sentendosi ispirato da Dio, invitò tutti i monaci alla preghiera, mentre i sacerdoti mandarono alcuni di loro dal Vescovo Mezzabarba, con un messaggio: «Se è vero quello che i monaci affermano di voi — dissero al Vescovo simoniaco — noi vi preghiamo per noi stessi e per la salute dell’anima vostra a non voler tentare Iddio, ma a convertirvi sinceramente a Lui, facendo penitenza dei vostri peccati. Se poi vi sentite mondo ed immune da colpa, venite liberamente al Monastero di Settimo, perché da oggi, a seconda del responso che darà. Dio, o noi vi ameremo e riveriremo più che mai non abbiamo fatto, oppure vi avremo per l’uomo il più vile ed abbietto che calchi la terra ». Il vescovo non solo rifiutò di aderire all’invito, ma proibì che vi andassero quei sacerdoti che fino allora gli erano rimasti fedeli: questi, però, andarono insieme agli altri.
Nella grande badia di Settimo, in precedenza, erano stati ospitati molti dei fiorentini perseguitati per la causa cattolica, ed a Settimo erano pure convenuti molti abati vallombrosani ed un cospicuo numero di monaci. Giovanni Gualberto era allora settantenne, ma al clero e al popolo, nonostante la sua malferma salute, si presentava ancora con quella energia giovanile dimostrata tanti anni prima, sul mercato di Firenze, per lanciare il grido di sfida contro i profanatori delle cose sacre. Infaticabile nelle città e nelle campagne, in pubblico ed in privato, nelle chiese e sulle piazze parlava a tutti e tutti esortava ad una vita cristiana, ad una aperta professione della fede, a fuggire gli eretici, secondo le prescrizioni dei Sacri Canoni. E i salutari effetti di questa predicazione sono ricordati da uno scrittore del tempo, il quale racconta che nei sinodi romani del 1049 e del 1050 vennero allontanati dall’altare gli ecclesiastici indegni << non solum Romae sed per omnem Tusciam, adiuvantibus monachis >> (non solo a Roma, ma ancora in tutta la Toscana, con l’aiuto dei monaci). In tal guisa, specialmente a Firenze, Giovanni Gualberto era riuscito a mettere insieme un buon numero di sacerdoti esemplari, di buoni chierici, e una bella schiera di fedeli, sui quali avrebbe potuto fare sicuro affidamento durante la battaglia definitiva, che andava avvicinandosi.
Nel frattempo, nella Chiesa fiorentina le cose peggiorarono per gli intrighi che, presso l’Imperatore tedesco, cominciarono i molti pretendenti alla cattedra episcopale di Firenze, per la quale fu prescelto un prete di Pavia, certo Pietro Mezzabarba. Questa scelta, dapprima, causo meraviglia per il fatto di vedere un lombardo destinato a capo della Chiesa più importante della Toscana. Ma, la meraviglia si cambiò ben presto in grave scandalo e in profonda indignazione quando si venne a sapere che il padre del Mezzabarba, come lui stesso dichiarò pubblicamente, aveva sborsato all’imperatore 3000 ducati d’oro per comprare al figlio il vescovato fiorentino. Appena il padre ebbe rivelato la colpa propria e quella del figlio, la situazione si fece gravissima e la città si divise: da una parte gli eretici e simoniaci, che facevano capo al vescovo, dall’altra la schiera dei veri cattolici, che si stringevano attorno a S. Giovanni Gualberto. Il Papa Alessandro II tentò di riportare la pace a Firenze, ma inutilmente: convocò allora un Concilio a Roma. Pietro Mezzabarba, tramite gli emissari del potente Imperatore, creò una certa indecisione nel Concilio di Roma e, in definitiva, le cose rimasero come prima. Questa situazione precaria infiammò maggiormente lo zelo di Giovanni Gualberto, che insieme ai suoi monaci continuò intrepido il suo apostolato per il trionfo della fede cattolica. Questi furono, sommariamente, i motivi che determinarono il Giudizio di Dio, richiesto a gran voce dal popolo.
Prima di procedere alla grande prova del fuoco, Giovanni Gualberto e i suoi monaci chiesero alla moltitudine il motivo di tanta presenza. La folla rispose che intendeva essere illuminata per rigettare l’errore e aderire alla verità. Ed a gran voce aggiunse: « Se Dio vi assiste, noi saremo con voi e combatteremo con voi a spada tratta, per la santità della Fede e lo splendore della verità ».
Allora Giovanni Gualberto invitò ad innalzare due grandi cataste di legna, alte oltre tre metri e lunghe ciascuna una decina di metri, distanti un braccio l’una dall’altra, cioè quanto appena bastasse al passaggio di una persona di corporatura normale, in modo che non si potessero poi sollevare obiezioni da parte dei partigiani del vescovo simoniaco. Nello strettissima corridoio tra le due cataste furono gettate delle frasche secche, in modo che si potesse dire veramente che era un cammino di fuoco. Il grande Patriarca sceglie allora un giovane monaco, Pietro Aldobrandini, da lui stesso avviato al sacerdozio fin da giovanetto. Pietro è il suo nome e suona come un presagio, poiché Pietro Apostolo sconfisse Simon Mago, che pretendeva - dieci secoli addietro - di comprare con l’oro la facoltà di operare miracoli (da lui trae origine, come è noto, la parola simonìa). Giovanni Gualberto lo invita a prepararsi per celebrare la S. Messa e Pietro celebra con intensa devozione su un altare eretto in campo aperto presso le due cataste di legna, mentre i monaci, con i loro cori, coprono i singhiozzi e il pianto delle donne presenti. Intanto, quattro vallombrosani, recando la Croce e l’acqua benedetta, danno fuoco alle cataste. Terminata la Messa, il Santo Fondatore fa togliere la pianeta a Pietro, che rimane con gli altri paramenti. In mezzo ad un profondo silenzio, mentre egli si avvicina alla pira spaventosa, un altro vallombrosano ricorda a viva voce le condizioni di quell’arduo cimento e il significato della invocazione che si rivolge a Dio. Giovanni Gualberto pone nelle mani di Pietro quella Croce che portava sempre con se e benedice il giovane monaco, che a sua volta fa, contro il fuoco, un segno di croce. Il momento è solenne e struggente quando Pietro imbocca lo stretto passaggio ed entra nel rogo, che per lui non è un supplizio, ma gloria. Il dotto Abate Salvini, studioso e cultore di questioni teologiche e ricercatore minuzioso di antichi testi e documenti, cosi ha potuto ricostruire quella prova del fuoco: « Affondano i piedi di Pietro nei carboni infiammati mentre egli avanza, si rigonfia per l’igneo ardore il camice, mentre la stola ed il manipolo ondeggiano in mezzo a quel vento di fuoco. I bianchi lini sacri vi appariscono dentro come candida neve percossa dai raggi del sole ed egli vi risplende qual circonfuso terso cristallo; ed avanza, avanza ancora con lentezza, finché si invola alla vista di ognuno. Il fuoco aveva dimenticato la sua propria natura: non solamente sembrava non arrecare alcun danno al monaco, ma perfino i suoi capelli, sebbene entrassero ad ogni passo sempre più nell’atmosfera ardente, non furono né bruciati, né strinati. Fra quelle fiamme pareva che non vi fosse altro calore che quello della fede del Monaco Pietro; anzi, in quelle fiamme era presente Iddio, che è fuoco che brucia e non consuma >>.
<< Gli occhi di tutti son rivolti ora all’altra parte della pira, da dove il monaco deve sortire. Si contano i minuti, si calcola il tempo che avrebbe dovuto impiegarvi e lo si vede già trascorso. La delusione sta delineandosi sulla faccia degli incerti e dei titubanti; già coloro che appartenevano al partito eretico stan per lanciare l’insulto della sfida fallita, quand’ecco Pietro comparisce dall’altra parte, nello stretto sentiero delle infuocate cataste. Cosa mai era successo? Lo narra poi egli stesso: mentre transitava attraverso le fiamme, il manipolo gli era caduto dal braccio senza che se ne fosse avveduto. Accortosene poi, era tornato indietro a ricercano, finché trovatolo, era uscito portandolo in mano intatto >>.
Avvenne un’esplosione di gioia tra tutti i presenti, che volevano toccare con le loro mani le vesti del Monaco Pietro, baciargli i sacri paramenti. Da tutti si lodava Dio, da tutti si esaltava l’Apostolo Pietro, che aveva ancora una volta sconfitto Simon Mago, mentre i seguaci e le soldatesche del Vescovo Mezzabarba si eclissarono per andare a riferire del miracolo avvenuto con il Giudizio di Dio. Giovanni Gualberto aveva dunque predicato la verità e questa grande vittoria della Fede sull’eresia aumentò la sua popolarità e giunse a Roma, al Papa Alessandro II, che in tal modo riuscì a deporre il Mezzabarba, e lo sostituì a reggere la Chiesa fiorentina con Rodolfo, vescovo di Todi, ben visto a Firenze perché avèva appartenuto al Capitolo della Cattedrale fiorentina. Egli si intese subito e perfettamente con l’Abate Giovan Gualberto, mettendo la sua autorità e la sua scienza al servizio della causa che il Santo Monaco aveva sposato e vinto.
Il deposto vescovo simoniaco Pietro Mezzabarba, spinto dal rimorso, in seguito a tali fatti, si recò un giorno a Vallombrosa: giunto davanti a Giovanni Gualberto, si gettò ai suoi piedi pregandolo di volerlo accogliere tra i suoi monaci perché voleva redimersi e li voleva passare il resto della sua vita per implorare il perdono divino per tanto male che aveva fatto alle anime e alla Chiesa. Giovanni Gualberto, commosso ed in piena umiltà, si piegò amorosamente sopra di lui, lo abbracciò e gli stampò sulla fronte un affettuoso bacio fraterno. In quell’istante, egli riprovò nel suo cuore la gioia che aveva già assaporata nel lontano Venerdì Santo del 1028, quando diede il bacio del perdono e della pace all’uccisore del fratello. Da quel giorno Pietro Mezzabarba divenne un monaco esemplare e Giovanni Guailberto ebbe per lui tutte le cure paterne.
Il monaco Pietro Aldobrandini, dopo la miracolosa prova del fuoco, fu chiamato l’Igneo, divenne Priore al Monastero di Passignano e Abate a quello di Fucecchio. Venne creato poi cardinale e vescovo di Albano (Roma da Gregorio VII. Nel 1094 fu elevato alla gloria celeste dal Papa Urbano II.
Prima di concludere questi cenni storici sulla vita di San Giovanni Guaiberto, mi sia consentito di riferire su un documento di grande rilevanza e che contiene il più grande e ambito elogio, la più ampia approvazione della suprema Autorità Apostolica sull’opera svolta in vita dal Santo Abate in favore della Fede cattolica.
Il grande Papa Gregorio VII, che governò per 12 anni la Chiesa in quel burrascoso periodo (1073-1085), svolse la sua opera apostolica principalmente a sradicare la simonia e il nicolaismo dal cuore del clero, dimostrando una incomparabile forza di volontà nell’affrontare impavidamente la lotta contro l’autorità imperiale, per rendere libera la Chiesa nell’esercizio del suo ministero. L’opposizione che trovò in Germania, in Francia, in Inghilterra e in Italia fu grande e minacciosa, ma Gregorio continuò la sua opera con crescente fervore e con estrema energia. Gli ostacoli incontrati in questa sua missione per ripristinare la purezza della Fede e dei costumi, gli fecero apprezzare maggiormente l’apostolato svolto da San Giovanni Gualberto e gli fecero comprendere la necessità che i Vallombrosani continuassero per la medesima strada onde la sua azione potesse essere efficacemente affiancata. Perciò, dopo il trapasso a miglior vita del santo Monaco, scrisse ai suoi successori questa nobile lettera: « Gregorio Vescovo, servo dei servi di Dio, ai chierici, monaci e religiosi laici che seguono le norme e regole date dalla santa memoria di Giovanni Gualberto abate, salute e benedizione apostolica. Sebbene non ci sia mai stato Concesso di vedere con gli occhi del corpo il vostro Padre Giovanni Gualberto di veneranda memoria, tuttavia, perché la purezza della sua fede risplendette meravigliosamente nella terra di Toscana. Noi molto teneramente l’amammo. E sebbene Noi non poniamo in dubbio la vostra imitazione attenta alle virtù di Lui, tuttavia vi scriviamo esortandovi paternamente affinché il vostro lavoro sia pieno di sollecitudine ed attenzione nell’estirpare la discordia dal campo del Signore.
Pertanto, o dilettissimi, per quanto lo concerne l’umana fragilità, imitate la vita di Lui, e dimostratevi veri suoi figlioli ed eredi del suo spirito per la somiglianza delle opere. Adoperatevi virilmente e confortatevi nel Signore e nella potenza della Divina Virtù con lo studio delle Sacre Scritture, con le quali si distruggono le argomentazioni degli eretici e si difende la fede della Santa Chiesa contro i seguaci del demonio, che cercano in tutti i modi di distruggere la nostra santa Religione. Attendete alla meditazione di quelle Sacre Scritture e lavorate con la consueta libertà a confusione dei cattivi.
Accogliete, come faceva il vostro Santo Padre Giovanni Gualberto, coloro che vengono a voi e sono disposti a seguire i vostri santi consigli. Istruiteli con sante esortazioni in tutto quello che è necessario a procurare la loro eterna salvezza, affinché tutti quelli che considereranno le vostre opere e quelle dei popoli che sono affidati al vostro ministero ne diano gloria al vostro Padre, che è salito alla gloria eterna.
Noi, intanto, quell’amore che portammo al vostro Padre ed a voi, vogliamo dimostrarvelo per tutto il corso della nostra vita, e tanto più vi ameremo quanto più vi vedremo fervorosi nelle opere divine, somministrandovi, non solo tutti gli aiuti spirituali, ma anche (se sarà necessario) i temporali.
Pregate l’Onnipotente Signore che ci dia forza e modo di reggere il gravissimo peso dell’incominciato governo e di ricondurre la Chiesa allo stato del primitivo fervore religioso. State sani. Gregorio >>.
Dopo circa nove secoli dalla morte di S. Giovanni Gualberto, l’illustre e ben noto scrittore e storico fiorentino, Piero Bargellini, che tanto fece per la sua città, in qualità di Sindaco, specialmente in occasione dell’ultima alluvione che colpi la Città del Fiore, così riassume i legami sorti tra quella Repubblica e i Vallombrosani: « Durante il periodo più glorioso della Repubblica fiorentina, in Palazzo Vecchio, insieme con i Priori e il Gonfaloniere, vivevano ben undici monaci vallombrosani: cinque addetti a uffici sacri e sei addetti a uffici amministrativi. Nulla si faceva nel Palazzo della Signoria che non fosse approvato e rogato dai Monaci Vallombrosani. Il sigillo della Repubblica era in mano loro e in mano loro erano anche le chiavi della cassaforte.
Non erano stati i monaci a volere il sigillo e le chiavi; erano stati i cittadini di Firenze che glieli avevano consegnati, convinti di riponi in buone mani. Quello fondato da S. Giovanni Gualberto era il primo ordine religioso fiorentino: nato a Firenze, sviluppatosi a Vallombrosa e poi ritornato in città.
S. Giovanni Gualberto e il suo Ordine contribuirono moltissimo allo sviluppo delle istituzioni civili fiorentine; La Repubblica fiorentina si sentiva, ed era, in po’ pupilla di Vallombrosa. Non erano stati i Vallombrosani a togliere ai vescovi e agli abati simoniaci il maneggio delle cose civili, per le quali si erano macchiati di simonia? E i laici non le avevano quasi ricevute dalle mani dei monaci vallombrosani? Era giusto che ora, nella amministrazione pubblica, gli stessi vallombrosani vigilassero anche i laici e si rendessero in qualche modo garanti dell’onestà dei magistrati di Palazzo Vecchio ».
Ma Firenze non si accontentò di chiamare in Palazzo Vecchio alcuni monaci vallombrosani per adibirli ad uffici sacri e amministrativi, per consegnar loro il sigillo della Repubblica e le chiavi della cassaforte; ma sopra tutto volle rendersi propizio il suo grande Santo con l’inserire nel catalogo delle feste cittadine la data del 12 luglio, giorno della morte di S. Giovanni Gualberto, che veniva celebrata solennemente dal Capitolo del Duomo fiorentino.
Oggi, il 12 luglio non è più solennizzato né dal Comune né dal Capitolo del Duomo. L’invasione napoleonica d’Italia, l’incameramento di tutti i monasteri e conventi, la cacciata da Vallombrosa di tutti quei monaci (il refettorio venne trasformato in una stalla per i quadrupedi delle truppe), fece decadere ogni tradizione, che non poté essere ripresa anche per altre consuetudini subentrate. Resta però, incancellabile, la storia.
SALVATORE MUZZI
S. G I O V A N N I G U A L B E R T O
PATRONO DEI FORESTALI
Perché venne indicato, e poi proclamato, San Giovanni Gualberto quale Celeste Patrono dei Forestali d’Italia? Due sono i motivi principali che indussero i Forestali a chiedere ufficialmente alla Suprema Autorità Apostolica tale riconoscimento: il primo è quello che deriva dal fatto, storica. mente provato, che Giovanni Gualberto si dedicò, con amore assiduo, alla piantagione di alberi silvani e alla coltura dei boschi in Vallombrosa; il secondo discende dalla tradizione della Scuola forestale italiana, che fu fondata nel 1869 proprio presso quel cenobio che fu costituito da San Giovanni Gualberto, quasi a perpetuare e a valorizzare l’opera selvicolturale intrapresa dal grande Patriarca.
Fonti storiche hanno tramandato fino a noi sicure notizie sulla parti. colare predisposizione che distinse il giovane Giovanni Gualberto, allorché risiedeva nell’avito feudo di Petroio, vicino a Firenze, presso i suoi famigliari: l’amore per la natura e, in specie, per il mondo vegetale. Ho accennato, nella prima parte di questo scritto, che il giovane Visdomini non disdegnava di unirsi, nelle ore libere, ai figli dei villici, cioè, come allora venivano chiamati, ai figli dei servi della gleba. In questa seconda parte metterà in maggior risalto il naturale trasporto che egli sentiva verso le trasformazioni stagionali delle piante e verso le incomparabili bellezze che queste offrivano. Educato ad una etica cristiana, egli si dimostrava molto sensibile per l’armoniosa disposizione del Creato da Dio e restava in ammirazione di fronte alla maestosa imponenza degli alberi longevi. Fu per questa sua naturale inclinazione che, dopo le percosse e le minacce ricevute sulla Piazza del Mercato Vecchio in Firenze, ad opera degli scherani del vescovo simoniaco Atto, non si rifugiò nel suo sicuro castello di Petroio, dove nessuno avrebbe osato avventurarsi, ma preferì la vita dei monti e dei boschi, che non offrivano nessuna garanzia a quei tempi, ma una grande incertezza per il domani.
Nella prima parte, si è voluto ricordare il miracolo del faggio, interpretato da Giovan Gualberto come un segno della volontà di Dio che egli colà permanesse. Ma, come si presentava allora ai suoi occhi quella contrada già denominata Acquabella e poi Vallombrosa per virtù del nostro Santo? Come una serie di forre pressoché impentrabili, a causa di un groviglio di intricata vegetazione, e per gli acquitrini esistenti: vere tane per gli animali selvatici e sicuri recessi per quei ladroni che volevano sfuggire alla cattura. Giovanni Gualberto non rinunziò a stabilirvisi, sicuro di ubbidire al divino volere, e cominciò la sua opera bonificatrice, prima con due soli confratelli, poi con altri che lo raggiunsero.
A maggior merito suo, va anzi tutto ricordato che in quegli oscuri tempi dell’alto medioevo, durante i quali tutte le arti, le scienze e le nobili manifestazioni dello spirito umano erano cadute in disuso, sopraffatte dagli stimoli di conquiste materiali, dall’addestramento alle armi d’ogni genere, dalle prepotenze verso i più deboli, anche le questioni agresti subirono una involuzione, poiché nel regime feudale nella maggior parte dei casi la terra non era libera, né libero il coltivatore. Il feudalesimo si rivelò una istituzione nefasta al progresso civile, economico, agricolo, anche a causa delle continue che rendevano instatabili i poteri civili e militari, per una vasta gamma di esorbitanze, per l’esosità dei balzelli, per l’ingordigia degli interessi nei prestiti,che costringevano i modesti possessori di terre a cedere queste per soddisfare l’avidità dei ricchi creditori. A poco a poco, cosi il latifondo si estese a danno delle piccole proprietà, in modo che i possessi di pochi potentati diventarono provincie.
Se, tra il decimo e l’undicesimo secolo, l’agricoltura si trovava in queste condizioni, chi poteva pensare alla selvicoltura? Quale incentivo poteva indurre alla coltivazione razionale delle foreste, quando non si aveva la concezione del valore economico privato e pubblico del bosco, né vi era, da parte di chicchessia, alcun indirizzo di politica forestale; quando da parte dei feudatari, padroni dei boschi che sempre più si inselvatichivano, si faceva di tutto per trarre soltanto un lucro immediato da essi, senza preoccuparsi se la loro consistenza venisse menomata? Tagli irrazionali, concessioni eccessive di pascolo, di escatico (raccolta di semi forestali mangerecci), di abelaggio (raccolta del miele nel cavo degli alberi), davano generalmente maggior utile dello stesso legname, diritti di sterpatico, tasse per ottenere il permesso di « arroncare », cioè di sradicare le selve, si praticavano come norma comune. Questi vasti possessi quasi abbandonati davano però la soddisfazione delle grandi cacciate, che erano in suprema auge, con cavalli, cani e un innumerevole seguito di persone che tutto devastavano pur di scovare il maggior numero di capi di selvaggina.
Da tutto ciò appare evidente come nessuna importanza fosse attribuita ai boschi, che, sotto certi aspetti, erano considerati come elemento invadente perché specialmente in quell’epoca, i boschi si estesero oltre misura: ma più che di boschi si dovrebbe dire di boscaglia.
Ecco, però, Giovanni Gualberto, ecco il miracolo del faggio, ecco i suoi primi lavori silvani. Come ebbe inizio questa sua opera e per qual fine? Egli cercò in tutti i modi di rendere meno selvaggia e più ospitale quella zona, anche in vista dei proseliti che, attorno a Lui, accorrevano e che moltiplicavano i problemi della comunità. Seguito dai suoi confratelli, iniziò il suo lavoro con la ripulitura delle selve circostanti, sia per ricavarne legna da ardere, sia per evitare che le bestie selvatiche e velenose si potessero annidare nelle immediate vicinanze delle celle, costruite con tronchi e rami in modo rudimentale. Successivamente, insieme ad alcuni neofiti, si dedicò a rinverdire alcune pendici, allo scopo di prevenire i mali delle acque selvagge. I mezzi pratici impiegati da Giovanni Gualberto a questo fine furono: quello di promuovere il ringiovanimento naturale del boscame e quello di ripopolare gli spazi vuoti mediante coltivazione artificiale. Facilitò il ringiovanimento naturale o rompendo il terreno con rastri e con marre attorno agli alberi fruttiferi, affinché i semi, cadendo, trovassero l’ambiente adatto per germogliare, oppure, per risparmiare tempo e lavoro e per distruggere gli animali nocivi, facendolo rompere a tempo opportuno dai porci, che hanno l’abitudine di grufolare in terra, per cercarvi bruchi, larve biscie e topi.
Quanto al ringiovanimento artificiale, risulta che Giovanni Gualberto variasse il lavoro secondo la grandezza degli spazi: se piccoli, vi piantava - o faceva piantare - semenzali e novelloni, tolti dalle macchie di novellame o dal piccolo vivaio che aveva fatto predisporre presso il primitivo cenobio; se grandi, vi eseguiva una piantagione regolare oppure una semina integrale.Dopo aver zappato o arato il suolo, spargeva diligentemente il seme e con un piccolo sarchiello lo copriva. Questi lavori furono poi proseguiti, in maniera più vasta e razionale, anche nei secoli successivi, dai Monaci Vallombrosani e con sistemi sempre più appropriati, via via che la tecnica si evolveva.
Per il necessario prosciugamento delle acque che si raccoglievano nella zona, Giovanni Gualberto adottò sistemi primitivi e adeguati ai mezzi di cui poteva disporre. Le vene sorgive in Acquabella vennero ripulite alle scaturigini e sistemate con primordiali abbeveratoi, mentre gli scoli erano avviati a valle. Per prosciugare le acque stagnanti dovette eseguire con i suoi delle piccole colmate, congiuntamente a delle fossalazioni, cioè fognazioni o drenaggi, parte obbliqui, affinché ricevessero le acque selvagge, e parte retti, con pendenza o a valle o verso il torrente, che – come si è detto nella prima parte - venne chiamato Vicano, costruendo anche piccole sponde e muretti di sostegno con materiale raccogliticcio. Sistemi molto lontani dalle moderne concezioni tecniche, ma tuttavia testimonianti i primi lavori selvicolturali e di bonifica intrapresi da un pioniere, in un periodo di oscurantismo: esempio luminoso per le future generazioni.
E’ poi da tener presente che la missione che si era proposto Giovanni Gualberto non rifletteva precipuamente la selvicoltura e la bonifica: queste venivano svolte, oltre che per una sua innata inclinazione, anche per rendere meno disagevole la zona in cui stava sorgendo una fiorente comunità di Monaci. Ma, Egli era sopra tutto ispirato a combattere i cattivi costumi di un certo clero, a contribuire all’estirpazione della simonia, dell’eresia e del nicolaismo, a ripristinare la purezza della Fede, in perfetta unione spirituale con la Chiesa. Tutto ciò, tutta questa attività sta a dimostrare la grande vitalità del nostro Santo, la sua volontà, la sua energia; senza fare menzione dei suoi obblighi religiosi, delle sue meditazioni, dei suoi studi sulle Sacre scritture, sul governo dell’Ordine, che, oltre a quello di Vallombrosa, stava fondando altri monasteri, man mano che l’opera dei Vallombrosani veniva conosciuta, approvata, e apprezzata.
Le sue cure dunque, si prodigarono anche a favore della montagna e del bosco, sotto la cui ombra Egli riparava per meditare pregare e per essere ispirato. In quel profondo silenzio, rotto soltanto dalle armoniose ed evanescenti voci del creato, Giovanni Gualberto trovava un ambiente adatto ad un profondo raccoglimento e il suo pensiero si librava verso il Creatore, di cui si sentiva una umile creatura. Egli comprese qual dono divino siano le selve: egli, che vi si trovava a perenne contatto, che ne sapeva apprezzare tutto il fascino, tutta la poesia, tutta l’utilità. Non costruì forse con i legnami di quei boschi le prime celle e il primo oratorio? Non furono i tronchi, eretti a mo’ di palizzata intorno all’eremo primitivo, a proteggere i cenobiti dagli assalti delle bestie affamate e da quelli di sanguinari ladroni?
Come Montecassino venne considerato un gran vivaio di agricoltori, oltre che di studiosi, cosi Vallombrosa, oltre a rendersi celebre nelle scienze, nelle lettere e nelle arti, gettò, per opera di San Giovanni Gualberto, il primo germe per una razionale coltivazione dei boschi. Nel suo trattato di selvicoltura (1887), il Di Berenger dice: <<Ond’è manifesta la prova dell’abbandono generale nel medio evo della coltivazione dei boschi e della poca cura che si aveva di conservarli. D’altra parte non è men vero che specialmente l’ordine monastico dei Benedettini Vallombrosani contribuì a promuovere la coltura dei boschi, allevando alcune abetaie e cerreti nel circondano di Reggello, assoggettandoli poi ad un governo perfettamente razionale >>. Giovanni Gualberto applicò nella più stretta interpretazione le Regole di San Benedetto; Egli non permise che i suoi monaci si affidassero, per nutrirsi alla questua, alle elemosine, ma unicamente al loro lavoro. Promosse quindi lavori agricoli per ottenere il pane quotidiano e quanto occorresse per il nutrimento della comunità; lavori sivani per bonificare la zona, per migliorarla, per renderla degna di tutte le provvidenze emanate dal Creatore. Nel suo studio storico su Vallombrosa, l’insigne Abate Carlo Orsini, dottore della Facoltà teologica fiorentina ed esaminatore sinodale, nel 1879 scrisse testualmente: <<Giovanni Gualberto volle che i suoi monaci praticassero l’agricoltura delle vicine campagne, che trasformarono in fertili e belle. Si dedicò alla coltivazione dei boschi e alla pastorizia, tenendo un certo numero di armenti, cui attendeva il giovanetto Pietro Aldobrandini>> (il quale, consacrato sacerdote, ebbe il viatico del Santo Fondatore di affrontare la prova del fuoco per ottenere il Giudizio di Dio, come accennato precedentemente). I montanari delle zone limitrofe, i quali conducevano una vita grama e piena di stenti, accorsero a Vallombrosa per sentire la parola di Giovanni Gualberto e rimasero meravigliati di quanto egli aveva fatto in quella contrada, suscitando in essi, con il suo esempio, l’amore verso a natura e la vegetazione in particolare. Una piccola oasi modello divenne Vallombrosa, nella spiritualità del cenobio e nel fervore per i lavori agresti e silvani, suscitato dalla grande personalità racchiusa nel Fondatore. Basti accennare che in Vallombrosa si tesseva la lana, ricavata dagli armenti, per farne tonache e mantelli per i monaci, i quali vennero soprannominati « Monaci Bigi » per il colore del tessuto, ricavato con sistemi primitivi e senza tinture.
Decisamente, non si può affermare che Giovanni Gualberto previde, nei 37 anni trascorsi in gran parte tra monti e boschi, che la sua opera manuale potesse avere, nei secoli successivi, tanta ripercussione nella selvicoltura nazionale e che l’Ordine da Lui fondato potesse annoverare dei monaci che si sarebbero distinti in modo eminente nel campo della botanica e delle scienze naturali e silvane. Tuttavia, è certo che Egli volle imprimere all’Ordine una particolare tendenza per i lavori agresti e silvani, vale a dire che, oltre ai doveri religiosi e monastici, secondo le « Consuetudines » da Lui stesso dettate, esso doveva attendere anche alla cura dei campi e delle selve.
Nei primi secoli della sua costituzione, Vallombrosa spese gran parte delle sue attività e delle sue energie al rafforzamento e allo sviluppo dell’istituzione, alla lotta contro gli eretici e i simoniaci, alla difesa della Chiesa. Ma, subito dopo l’affermarsi dell’Ordine che, come si è accennato, si era esteso in ogni regione della penisola e in Francia, subito dopo aver partecipato ad allontanare i pericoli che minavano la libertà spirituale della Chiesa, ecco che Vallombrosa offre all’Italia e al mondo una eletta schiera di scienziati. Ecco la istituzione del famoso Collegio dei Nobili, cosi chiamato perché le famiglie patrizie della Toscana e delle regioni circonvicine affidavano l’educazione dei propri figli ai Vallombrosani, che erano considerati i migliori precettori dell’epoca; ecco le Scuole per il popolo, che non erano altro che scuole rurali, istituite accanto ad ogni monastero e frequentate principalmente da contadini, braccianti e montanari; ecco il grande Galileo Galilei, che da giovanetto venne affidato, per diversi anni, alla dottrina dell’abate Don Orazio Morandi, patrizio romano, laureato all’Università di Roma in filosofia e teologia. Ed infine, per sintetizzare, ecco una larga schiera di vallombrosani naturalisti, botanici, forestali, chimici, medici, astronomi, architetti, matematici, accademici, poeti, filosofi, umanisti, musicisti, scrittori, pittori, ecc. tra cui sembra lecito ricordare: Don Vitale Magazzini, morto nel 1623, fu precettore dei figli del granduca Ferdinando I, docente di agraria, scrisse diversi libri su questioni agrarie; Don Virgilio Falugi, docente di botanica, morto nel 1707; Don Salvatore Perier, docente di scienze naturali, cultore delle arti belle, morto nel 1771; Don Bruno Tozzi, naturalista, botanico rinomatissimo, socio della reale Accademia di Londra e dell’Accademia del Georgofini di Firenze, morto nel 1743; Don Gianfrancesco Maratti, patrizio romano, prefetto dell’orto botanico dell’Archiginnasio di Roma, professore di botanica alla Sapienza di Roma, socio delle più illustri accademie d’Europa, autore della << Flora romana >> e di altre opere di botanica, morto nel 1777; Don Bartolomeo Molinari, milanese, eccellente botanico e medico, arte che col permesso della S. Sede esercitò sempre a beneficio dei poveri, morto nel 1790; Don Vincenzo Vitman, professore di botanica all’Università di Milano, socio di accademie italiane ed estere, pubblicò numerosi trattati, tra cui << De medicalibus herbarum facultatibus liber >> morto nel 1806; Don Leopoldo Ducci, esperto in agraria, fu fondatore del giornale agrario toscano. Il suo biografo, Marchese Lapo dei Ricci, scrisse di lui: << A questo illustre Vallombrosano l’agricoltura toscana è debitrice di molti avanzamenti >>. Morto nel 1827; Don Luigi Fornaini, socio dell’Accademia dei Georgofili di Firenze, selvicultore, tecnico e scrittore, tra i suoi volumi si ricordano: << Della coltivazione degli abeti >> e << Saggio sopra l’utilità di ben conservare e preservare le foreste >>. Le abetine di Vallombrosa, da lui impiantate e curate, sono il miglior monumento per la sua opera di appassionato selvicultore. Morto nel 1838. Per avvalorare
i motivi che indussero i Forestali italiani a chiedere la protezione celeste di San Giovanni Gualberto, non si possono sottacere quelle fonti storiche, che, oltre a testimoniare di aver Egli « gettato i primi germi per una razionale coltivazione dei boschi di Vallombrosa », come scrisse il nostro compianto prof. Giovanni Sala nel 1939 su « La Rivista Forestale Italiana », sono altresì una conferma che tali germi furono trasfusi e allevati anche dalle successive generazioni di Vallombrosani.
Dopo che la Chiesa riuscì a trionfare sui mali che la minavano per le interferenze imperiali, i Vallombrosani, paghi della lotta vittoriosa sostenuta a fianco dei Pontefici di Roma, poterono dedicarsi con maggiore serenità ai compiti contemplati dalla loro magna carta, cioè delle << Consuetudines monasticae >> e quindi anche agli studi teologici e di altre discipline, tra cui quella silvana. Tra i cultori di quest’ultima scienza, si può indubbiamente annoverare l’Abate don Luigi Fornaini (1756-1838), che fu il più eminente amministratore vallombrosano della foresta omonima; infatti, le sue teorie e la sua tecnica - che risalgono a circa 170 anni fa - vennero giudicate positivamente anche per la nostra epoca.
Oltre al governo delle preesistenti abetine, il Fornaini provvide alla piantagione di altre alcune delle quali proprio su quei terreni che, a causa della carestia del 1766, vennero sottratti al bosco per seminarvi, per più stagioni la segala, senza far riposare il terreno. Occorse tutta l’esperienza e la tecnica di questo Abate se, alfine, quelle abetine furono ricostituite. Questo insigne studioso e appassionato tecnico ci ha tramandato anche delle opere scientifiche di notevole pregio. Una, pubblica nel 1804 dall’Accademia dei Georgofili, intitolata: << Della coltivazione degli abeti >> e l’altra, un ampio trattato, col titolo: « Saggio sopra l’utilità di ben conservare e preservare le foreste », del 1825.
Il compianto ed illustre Maestro, prof. Aldo Pavari, in occasione del centenario della morte del Fornaini, scrisse nel numero luglio-agosto 1938 de «Il Faggio Vallombrosano», un interessante studio sull’opera selvicoturalc del Fornaini, della quale reputo trascrivere alcuni brani: « Per giudicare il valore e il significato delle opere del Fornaini nella storia delle scienze forestali, è necessario riferirsi all’epoca in cui esse comparvero, cioè agli albori del secolo scorso. In quei tempi gli studi forestali in Italia erano del tutto negletti, mentre all’estero già si stava delineando la creazione delle basi scentifiche della selvicoltura come corpo di dottrina, distinto da quello generico delle scienze agronomiche. Sopra tutto la prima memoria del Fornaini, quella comparsa nel 1804 sulla coltivazione degli abeti, ha grande valore perché frutto di lunga esperienza personale, e perché fa risaltare in modo spicca tissimo le sue doti di osservatore sagace ed acuto dei fenomeni della natura.
Egli ci fa seguire tutta la vita della pianta dai germogliare del seme alla morte dell’albero maestoso; in pochi, brevi e succosi periodi, egli disegna la tipica curva dell’accrescimento in altezza e in diametro dell’abete dall’età giovanile a quella matura, sino alla fredda vecchiaia quando la guida non vegeta più verticalmente, si estende lateralmente e forma una specie di cestella o, come la chiamano, corona.Le particolari esigenze dell’abete bianco nei riguardi del clima e del suolo sono precisate dal Fornaini in modo mirabile, e cosi pure lo sono le sue principali caratteristiche biologiche. Su questa profonda conoscenza della biologia della pianta, il Fornaini basa accurate e diligenti istruzioni per la coltivazione dell’abetina, cioè per il suo impianto e trattamento colturale. Egli precisa cioè nettamente una tecnica silvana che ha portato, in circa due secoli, alla creazione di quelle magnifiche foreste di abete bianco dell’Appennino toscano, che costituiscono nel quadro della selvicoltura, non soltanto italiana, ma europea, un tipo di bosco assolutamente originale, tanto che ancor oggi desta il più vivo interesse negli studiosi stranieri ». Così il Pavari.
Ho voluto dilungarmi un poco sull’opera scientifica e tecnica del Fornaini perché questi venne rievocato 34 anni fa da quell’illustre Maestro, che tenne per molti anni la cattedra di selvicoltura presso l’Università di Firenze e diresse con alta competenza la prima Stazione Sperimentale di Selvicoltura; intendo riferirmi al compianto prof. Aldo Pavari, che impiantò parcelle sperimentali in tutte le zone tipiche italiane e che ampliò ed arricchì di numerosissime specie legnose il famoso arboreto in Vallombrosa, da renderlo uno dei migliori di Europa, se non del mondo, introducendo nella selvicoltura italiana numerose specie esotiche, in seguito impiantate in molte zone con esiti brillanti.
Ma, in senso più lato, l’opera dei Vallombrosani in favore della selvicoltura occupa un degno posto nella storia forestale della nostra penisola, perché dopo S. Giovanni Gualberto seguitò per molti secoli, fino al giorno in cui le leggi napoleoniche infierirono sugli ordini monastici e, successivamente, lo Stato italiano incamerò nel suo demanio anche la foresta di Vallombrosa e il sacro Archicenobio. Già intorno al 1350 il Beato Michele Flammini, Abate di Vallombrosa, enunciò delle saggie costituzioni sul modo come si debbono coltivare i boschi. Lasciò scritto che, ad ogni stagione silvana, si dovessero sostituire con tenere piantine quelle più adulte cadute a taglio; stabili che i tagli venissero fatti con criteri razionali e senza danneggiare il resto del bosco. Nelle sue costituzioni si può leggere che « i boschi, oltre ad altri vantaggi fermano le acque, le fanno scorrere a valle con minore velocità e le adunano più lentamente ». Questi ed altri dettami lasciò in eredità ai suoi monaci questo Abate che, per 23 anni, dal 1347 al 1370, diresse l’Ordine Vallombrosano. Occorre sopra tutto considerare il millesimo.
La tradizione selvicolturale in Italia ci è stata tramandata dai Vailombrosani: dal Santo Fondatore all’Abate Fornaini, per un periodo di tempo che supera i sette secoli. Quando si parla di Vallombrosa, non dobbiamo limitarci a pensare soltanto a questa zona geografica. Vallombrosa fu un nucleo da cui si irradiò un’idea, una legge, un esempio. Vallombrosa è anche là ove esiste un Monastero, una comunità di questi Monaci, è là ove tuttora permangono indelebili le orme lasciate da San Giovanni Gualberto e dai suoi seguaci. Le opere selvicolturali dei Vallombrosani si estesero in tutta la Toscana, nell’Emilia, nella Romagna, nella Lombardia e nel Piemonte. La Toscana, ove l’Ordine annoverava il maggior numero di badie, monasteri, priorati, celle, ospizi, oratori, ospedali, tanto da far dire ad alcuni storici che fosse tutta sotto la direzione religiosa dei Vallombrosani; questa regione risentì più di ogni altra il benefico influsso della coscienza forestale e dell’esempio pratico dei Monaci. Mediante la loro propaganda, fatta anche attraverso il Collegio dei Nobili, convinsero numerose case patrizie ad impiantare boschi nei terreni di loro proprietà. E cosi avvenne nei possessi dei Marchesi degli Albizi, alla Consuma, sulle pendici del Monte Senario, nel Mugello, nei terreni di proprietà dei Marchesi Corsini, nel Valdarno, nelle terre dei Medici Tornaquinci e in quelle dei Ricasoli, fino ai tomboli lungo la costa tirrenica, tra cui quelli di Migliarino di proprietà della casa Salviati. Vasti lavori sivani furono diretti dai Vallombrosiani nei possessi della Casa medicea, specialmente nei 37 anni in cui regnò Cosimo I, il quale fu da essi convinto a promulgar una legge, il 17 novembre 1559, che proibiva il taglio dei boschi situati entro un miglio dal crinale degli Appennini in giù, dato lo scempio che allora se ne faceva. Questa legge venne poi abrogata il 24 ottobre 1780 dal Granduca Leopoldo di Lorena, che abolì ogni vincolo forestale, ma non ebbe conseguenze gravi poiché erasi già diffusa tra le popolazioni e i proprietari, essenzialmente ad opera dei Vallombrosiani, quella coscienza forestale, che è tanto necessario inculcare ancora tra le nostre genti. Questo è il motivo da cui deriva oggi la constatazione statistica che la Toscana possiede la maggior quantità di superficie boscata in percentuale, nei confronti di quelle di ciascuna delle regioni italiane. Tale merito va ascritto all’esempio, alla tecnica e all’apostolato in materia silvana dei Monaci Benedettini Vallombrosani.
Se oggi possiamo ammirare Vallombrosa coronata da superbe abetaie, se oggi Vallombrosa offre ai nostri sguardi splendidi angoli panoramici e al nostro fisico stanco deliziosi soggiorni, dobbiamo esserne grati all’amore e all’opera primigenia del Santo Fondatore e di tanti altri benemeriti Monaci, specialmente del Fornaini, il quale potrebbe giustamente ricordarci: << Guardate intorno: ecco il mio monumento >>.
Volle in caso o, meglio, l’alta tutela di San Giovanni Gualberto se un cosi inestimabile patrimonio non andasse distrutto nel 1866, allorché la foresta e l’archicenobio di Vallombrosa vennero incamerati dallo Stato. Se ne voleva l’alienazione per incrementare le entrate dell’erario esausto. Per fortuna, entrambi i beni vennero conservati per merito del grande Luigi Luzzatti, che - innamorato egli stesso dei boschi - seppe tradurre in realtà l’idea del Capo dei servizi forestali dell’epoca e del Di Berenger, di istituire a Vallombrosa la prima Scuola superiore forestale italiana. Ecco, dunque, come poté verificarsi il felice innesto della cultura forestale italiana sul secolare e ferace tronco della tradizione silvana dei Vallombrosani.
L’amore per le foreste ha sempre fornito la prova di qualità morali più eletto nei popoli che vi si ispirano. Giovanni Gualberto e, dietro il suo esempio e il suo stimolo, i Vallombrosani hanno esercitato e dimostrato di possedere per primi in Italia anche questa benemerita vocazione, nei secoli dell’oscurantismo medioevale.
Vada perciò il nostro devoto e riconoscente omaggio al grande Santo italiano, che venne proclamato Patrono dei Forestali da Pio XII, accogliendo il loro unanime desiderio, affinché - come è testualmente detto nel Decreto Apostolico del 12 gennaio 1951 - nell’adempimento del loro <<gravoso compito possano godere sempre dell’aiuto di un Santo cosi amante e benemerito delle foreste>>.
Nelle prossime celebrazioni religiose e culturali, che si svolgeranno a Vallombrosa per solennizzare il nono centenario della morte di San Giovanni Gualberto, questa modesta rievocazione costituirà la premessa per la partecipazione consapevole e ufficiale dei Forestali d’Italia e la promessa che essi opereranno per essere sempre più degni della Fede, dell’umanità e dell’amore verso la natura, che hanno ispirato e animato la vita del grande Santo Vallombrosano.
SALVATORE MUZZI
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